Maidan di Sergei Loznitsa

Category : Dai festival, Film

Maidan, vincitore del concorso internazionale lungometraggi al 55° Festival dei Popoli, è l’ultimo film del regista ucraino Sergei Loznitsa. Autore importante nell’ambito del documentario internazionale contemporaneo, con film come Settlement, Portrait o Landscape ha ritratto la Russia più profonda e i suoi abitanti, dando vita a un’opera coerente che denota uno sguardo originale, nutrito da una profonda riflessione formale.

Sergei Loznitsa al Festival dei Popoli 2014

Sergei Loznitsa al Festival dei Popoli 2014

Maidan di Sergei LoznitsaMaidan di Sergei LoznitsaMaidan di Sergei LoznitsaMaidan di Sergei LoznitsaMaidan di Sergei LoznitsaMaidan di Sergei Loznitsa

Alberto Lastrucci, il direttore del Festival dei Popoli, con Sergei Loznitsa

Alberto Lastrucci, il direttore del Festival dei Popoli, con Sergei Loznitsa

Maidan è la grande piazza nel centro di Kiev, teatro della rivoluzione popolare che ha portato alla caduta del presidente filorusso Viktor Janukovyč. Quello di Loznitsa è un film corale, che ritrae il popolo nella piazza nel corso degli eventi, realizzato a partire da 200 ore di girato e composto di una successione di piani fissi, ciascuno dei quali descrive uno specifico momento o situazione, dai primi momenti di gioia popolare ai tragici sviluppi degli ultimi giorni di scontri. Loznitsa ha spiegato come dopo aver deciso di girare solo piani fissi la cosa più difficile sia stata resistere alla tentazione di muovere la telecamera, perché nell’agitazione della piazza c’era continuamente la sensazione di stare perdendo qualcos’altro di importante. D’altro canto la scelta di piani fissi di durata prolungata permette al regista di dedicare attenzione alla composizione dell’inquadratura perfino nel caos degli scontri e conferisce a Maidan una potenza e un impatto visivo sconosciuti ad altri film su eventi rivoluzionari girati (come sembrerebbe a prima vista più logico) con la camera a mano e movimenti rapidi in sintonia con l’agitazione della folla. Tra l’immensa mole di materiale non entrato nel montaggio finale di 130′ Loznitsa ricorda in particolare alcune riprese ravvicinate dei momenti più tragici, con manifestanti feriti o uccisi. Per ragioni legate alla drammaturgia complessiva del film il regista spiega di non avere incluso quelle immagini, sostituendole con altre prese da maggiore distanza dai reporter della televisione, perché l’impatto emotivo di quelle scene era talmente violento che avrebbe portato lo spettatore fuori dal film, spezzandone il flusso narrativo. Maidan è in effetti, come sottolinea Loznitsa, un film senza eroi, che vuole descrivere il popolo come un insieme di persone di diversa età ed estrazione sociale, senza identificarsi in una figura rappresentativa (il regista ricorda a questo proposito Sciopero di Eisenstein). Loznitsa spiega di avere fatto la scelta dei piani fissi e di lunga durata anche per distanziarsi dalle immagini dei fatti veicolate dai media russi, che attraverso il montaggio di piani molto brevi manipolavano in quei giorni la realtà. In Maidan vediamo in effetti solo sullo sfondo i paramilitari nazionalisti con tuta mimetica, elmetto e passamontagna, che anche secondo i media internazionali non russi avrebbero dato un importante contributo nella lotta contro i “Birkut”, le forze speciali di Janukovyč. I paramilitari venivano sempre mostrati dai media russi per provare che c’era una regia dietro il sollevamento popolare. Loznitsa ci mostra invece una vecchietta in prima fila davanti alle forze speciali schierate che viene bonariamente indotta a stare più indietro da un infermiere, giovani volontari che preparano la zuppa in grandi pentoloni, una signora che distribuisce mascherine alle persone che raccolgono le ceneri prodotte dalle macerie bruciate perché si proteggano dalla polvere, la grande folla commossa che rende omaggio alle vittime.
Una cosa è certa: ancora una volta Loznitsa ha realizzato un film dalla forte impronta personale, frutto di una profonda riflessione formale.

Mario Tolomelli

La línea paterna, film pioniere nel riuso degli home movies in Messico

Category : Film

Le immagini provenienti da pellicole di formato sub-standard, originariamente girate in ambito familiare, sono divenute negli ultimi anni un elemento sempre più spesso presente nell’impianto dei film di non fiction, che ne fanno in genere un uso sporadico, miscelandole ad altri tipi di materiali, come fotografie, immagini di archivio ufficiali, documenti, interviste. Alcuni film sono invece realizzati a partire unicamente o prevalentemente da home movies, provenienti da famiglie differenti e quindi utilizzati come puro found footage, oppure provenienti da un’unica famiglia e utilizzati in modo filologico per rievocare la storia o le storie di quella particolare famiglia. Appartengono a quest’ultima tipologia opere che in genere attingono a fondi di pellicole particolarmente rilevanti sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo, come  ad esempio King of Velichovky di Jan Šikl, The Diary of Mister N. di Péter Forgács o Un’ora sola ti vorrei di Alina Marazzi.

È anche il caso di La línea paterna1 di José Buil Ríos e Maryse Sistach Perret, pionieri nel riuso dei film di famiglia in Messico.2 “Piccolo capolavoro inatteso del cinema più intimo e profondo”,3 diviso in capitoli scanditi da cartelli che richiamano quelli in uso nei film muti, rievoca la storia della numerosa famiglia del dottor José Buil Belenguer, nonno dell’autore e medico a Papantla, nello stato di Veracruz, Messico occidentale, grazie alle oltre trecento pellicole in formato 9,5 mm Pathé Baby da lui girate a partire dal 1925 e alle innumerevoli fotografie di famiglia.

La linea paterna

Il dottor Buil nei primi tempi in Messico; la casa della famiglia a Papantla; l’arrivo del proiettore Pathé Baby.4

Papantla si situa fin dall’inizio in una dimensione magica, onirica, fatta di suoni – il canto del Papan, uccello frequente nella regione, che dà il nome alla cittadina5 – di odori – “a otto chilometri di distanza il profumo della vaniglia annuncia la prossimità di Papantla”6 – di immagini – quelle del dottor Buil, resuscitate da tempi lontani. Grazie a queste immagini lo spettatore intraprende un viaggio attraverso la Papantla degli anni ’20 e ’30, che può far pensare al viaggio a Comala di Juan Preciado, protagonista di un capolavoro della letteratura messicana: Pedro Páramo di Juan Rulfo.7 “Venni a Comala perché mi avevano detto che qui viveva mio padre, un certo Pedro Páramo. […] Era il tempo della canicola, quando l’aria di agosto soffia infuocata, pervasa dall’odore greve delle saponarie.”8 Come la Comala di Rulfo si rivela abitata da fantasmi di persone morte, così la Papantla di Buil è abitata da fantasmi, che sono ormai solo immagini sullo schermo. Ma mentre il viaggio a Comala sarà fatale per Juan Preciado, noi ritorniamo da Papantla con un prezioso carico di memorie riportate in vita attraverso le pellicole del dottor Buil.

La linea paterna

Il ritrovamento delle pellicole.

Le pellicole, rinvenute in un vecchio baule nella casa del dottore a Papantla (alcune in cattivo stato di conservazione), furono restaurate e gonfiate direttamente dal formato 9,5 mm al formato 35 mm presso la Filmoteca della Universidad Nacional Autonóma de México (UNAM), grazie a una attrezzatura messa a punto dal direttore della fotografia Arturo de la Rosa, che collegò un proiettore Pathé Baby a una cinepresa Bell & Howell 35 mm.9 Una antologia di queste immagini venne proiettata pubblicamente con il titolo Imágenes de Papantla,10 finché l’Instituto Mexicano de Cinematografía accordò il finanziamento al progetto per la realizzazione di un documentario in 35 mm basato sul materiale ritrovato. Secondo quanto riferisce Ivan Trujillo, direttore della Filmoteca UNAM, José Buil si presentò allora per chiedere le pellicole in modo da iniziare a montare il documentario. Gli venne ricordato che si trattava di internegativi realizzati per la preservazione delle immagini originali, che non potevano quindi essere tagliati al tavolo di montaggio e che a quello scopo era necessario ricavare ulteriori copie.11 Effettuato questo passaggio poté iniziare la lavorazione del film, che oltre alle immagini girate dal dottor Buil includerà alcune riprese in 35 mm e in video Hi8.12

La linea paterna

“Gracias al cine mi abuelo vuelve a cabalgar”.

“Grazie al cinema mio nonno torna a cavalcare”:13 fin dalle prime immagini si intuisce che il film si muoverà su un registro poetico e personale, accompagnato da un testo di indubbia qualità letteraria, “altrettanto o forse ancora più attraente delle immagini stesse”, come ha sottolineato Jorge Ruffinelli.14 Questo testo, scandito da una voce over dal tono colloquiale che impersona il punto di vista dell’autore, fornisce informazioni sulle immagini che appaiono sullo schermo e condivide con lo spettatore osservazioni, riflessioni, riporta ricordi dei membri più anziani della famiglia ancora in vita. Particolarmente illuminanti sono alcuni brani dal diario del nonno cineamatore e dalla lettera con cui il futuro suocero accettava di dargli la figlia in sposa, testi che come apprendiamo da Alfonso Morales Carrillo sono in realtà frutto della penna del nipote e regista, José Buil Ríos, che agisce come un “medium” dando voce agli antenati.15 Forse bisogna qui ricordare che l’autore, quando realizzò questo film, aveva già alle spalle una carriera come sceneggiatore e regista di film di finzione; con Maryse Sistach ha firmato a oggi una dozzina di lungometraggi.

“Senza essere eccezionale, la storia del nonno risulta interessante”:16 medico a Valencia, in Spagna, perde la moglie e i due figli ancora in tenera età a causa di un’epidemia nel 1909. Per lasciarsi alle spalle il dolore decide di emigrare in Messico, dove con lo scoppio della rivoluzione si trova a curare i combattenti. Si sposa e parte per la Spagna con la moglie; a Valencia nasce il loro primo figlio. Al rientro in Messico le strade sono interrotte per i combattimenti e la famiglia trova rifugio a Papantla, dove muore il primogenito. Finiscono per rimanere nella cittadina integrandosi alla società locale. Rapidamente arrivano altri figli e dopo alcuni anni arrivano anche da Parigi via Città del Messico il proiettore e la cinepresa Pathé…

Pathé Baby

Materiale pubblicitario dei distributori Pathé a Città del Messico da cui si riforniva José Buil Belenguer.17

Naturalmente le immagini del dottor Buil, come quelle di ogni cineamatore, si concentrano sulla rappresentazione della vita quotidiana nei suoi “momenti felici”:18 compleanni, festività, nascite, matrimoni, escursioni… Tocca così al nipote integrare la storia con le parti meno gioiose, rompendo il tabù osservato dal nonno, che per filmare le “persone care” seguiva fedelmente le istruzioni e i suggerimenti della ditta Pathé Frères. In montaggi cronologici vediamo invecchiare sullo schermo i membri della famiglia; la morte, il lutto, il cimitero fanno il loro ingresso nel documentario del nipote, che si potrebbe considerare nel suo insieme come una profonda riflessione sulla vita e la morte. Quest’ultima prende d’altronde l’iniziativa fin dall’inizio della lavorazione del film, con il decesso improvviso e inaspettato del padre dell’autore durante il primo sopralluogo a Papantla. “La línea paterna è in ultima istanza un commovente saggio sul tempo come feticcio e smarrimento, sulla errabonda condizione dei ricordi”19

Un certo numero di pellicole girate dal dottor Buil ritraggono scene di vita quotidiana a Papantla, in particolare le lunghe distese di fiori di vaniglia messi a essiccare lungo le strade, balli e festività pubbliche, e inoltre varie escursioni alla città precolombiana di El Tajin, nel corso delle quali i membri della famiglia scalano la Piramide delle Nicchie e assistono al suggestivo rito dei “Voladores”, tradizione totonaca precolombiana inglobata all’interno della festività del Corpus Christi: quattro uomini, con i piedi legati a una corda fissata alla sommità di un palo alto venti metri si gettano nel vuoto e compiono tredici giri a spirale verso il basso per completare cinquantadue serie (ciclo del calendario degli indios), mentre un quinto uomo danza su una piccola piattaforma in cima al palo suonando tamburo e flauto.20 Nell’insieme si tratta di straordinarie testimonianze storiche ed etnografiche sulla vita quotidiana degli anni ’20 e ’30 del ’900 nel Totonacapan, la regione nel nord dello stato di Veracruz in cui si trova Papantla.
La sensazione che le pellicole del dottor Buil siano di per sé documenti di eccezionale interesse e rarità, al di là del possibile “esotismo” per lo spettatore europeo, è confermata da Álvaro Vázquez Mantecón21 che sottolinea come, considerata la tendenza delle famiglie di classe medio alta (le uniche a potersi permettere l’acquisto dell’attrezzatura cineamatoriale, a maggior ragione nel 1925) a rimanere concentrate nella capitale, le pellicole filmate dal dottor Buil a Papantla furono probabilmente le uniche in un raggio di almeno duecento chilometri.

El Tajin - Voladores

El Tajin: la Piramide delle Nicchie e i “Voladores” filmati negli anni ’90 da José Buil Ríos.

Negli stessi anni in cui il dottor Buil portava i figli in gita a El Tajin e filmava la Piramide delle Nicchie e i Voladores, un grande regista russo era arrivato in Messico, con il progetto di realizzarvi un film epico sulla storia del paese: Sergej Ėjzenštejn. Accompagnato dal direttore della fotografia Eduard Tissé e dall’aiuto regista Grigorij Aleksandrov, Ėjzenštejn filmò migliaia di metri di pellicola in vari luoghi del Messico, tra cui lo Yucatán con le sue gigantesche piramidi precolombiane. Il seguito della storia è noto: quel film sfortunato non poté mai essere terminato perché Ėjzenštejn non riuscì a ottenere dal suo produttore americano il denaro necessario per concludere le riprese e per di più gli fu ingiunto di rientrare a Mosca. Il materiale girato rimase nelle mani del produttore e fu utilizzato in molteplici montaggi non autorizzati da Ėjzenštejn, fino all’ultimo, che si suppone più filologico, realizzato nel 1979 (dopo quasi cinquant’anni dalle riprese e trenta dalla morte del regista), curato da Grigorij Aleksandrov, e intitolato ¡Que viva México! Chiunque abbia visto il film conserva impresso nella memoria il ricordo di quelle immagini fortemente contrastate, caratterizzate da una grande cura compositiva, indimenticabili. È stato criticato negli anni l’influsso che Ėjzenštejn ha avuto sul cinema messicano (intellettualismo europeo, estetica legata al film muto con ipertrofia del montaggio), tanto che secondo Nestor Almendros “per molti anni si ritenne che il buon cinema messicano dovesse necessariamente contenere una serie di ingredienti: tema sociale e di lotta, rivendicazione di temi popolari e primitivi, visione ieratica della realtà, fotografia ispirata alle arti plastiche, montaggio analitico dei piani, attitudine folklorica…”22 Ma il fascino delle immagini di Ėjzenštejn rimane innegabile.
Nel 1994 José Buil va a El Tajin con la cinepresa Arriflex per riprendere i luoghi in cui andavano in gita i suoi familiari sessant’anni prima. Incrocia degli indios totonacos di passaggio e decide di filmarli, prima di fronte poi di profilo, attuando una sorta di reenactment che imita la mise en scène dei ritratti familiari del nonno. Sia voluto o meno, quelle immagini evocano indubbiamente quelle del prologo di ¡Que viva México! girate da Ėjzenštejn nello Yucatán…

Donna totonaca

Donna totonaca filmata da José Buil Ríos nel 1994 a El Tajin.

Eisenstein - ¡Que viva Mexico!

Due inquadrature di Ėjzenštejn dal prologo di ¡Que viva Mexico!

Nel suo interessante saggio La linea paterna, palimpsesto filmico, Salvador Velazco prende in considerazione e analizza separatamente il corpus di numerose ore filmato dal nonno e il documentario di 85 minuti realizzato dal nipote, come un paleografo cercherebbe di distinguere su una pergamena riutilizzata il testo originario.23 Velazco fa notare come la maggior parte delle pellicole girate dal dottor Buil consistesse in un unico piano (la stessa modalità delle vedute Lumière), e come le attitudini dei soggetti filmati riproducessero stilemi del cinema muto, quali la iperespressività, cosa ben comprensibile dato che tra le pellicole proiettate nella casa di Papantla c’erano anche versioni Pathé Baby di film comici e commedie (ma anche cartoni animati e documentari) francesi, spagnoli o statunitensi,24 che i giovani Buil avevano naturalmente in mente quando si trovavano a loro volta davanti alla cinepresa. A conferma di questo tra le pellicole girate dal dottore c’è una parodia di Chaplin intitolata Charlotada.25 È noto d’altronde che la prima opera di Ivens adolescente (De Wigwam, 1912) fu un western girato nel giardino di casa…
In questo contesto c’è però una specificità, una sorta di rito familiare, per cui ciascun componente della famiglia si presenta alla cinepresa abbozzando un inchino con la testa per poi mostrarsi alternativamente di fronte e di profilo. Questa stessa sequenza, ripetuta nel corso degli anni da tutti i componenti della famiglia davanti alla cinepresa finisce per diventare una sorta di “codice familiare”, anche se è possibile che traesse origine almeno in parte dalle istruzioni della ditta Pathé per l’esecuzione di “ritratti animati”.26

Amparo Buil Güemes

Amparo Buil Güemes, una delle figlie del dottore, compie il rituale saluto alla cinepresa.

Un altro “topos” della cinematografia familiare dei Buil è la danza eseguita generalmente da una coppia di bambini o ragazzini della famiglia vestiti con costumi tradizionali. Si tratta del Jarabe tapatío, un ballo che ebbe molta diffusione nel Messico post-rivoluzionario perché assurto a simbolo dell’unità nazionale.27
Una strategia adottata da José Buil per far dialogare la contemporaneità con le immagini d’archivio del nonno e per mettere in relazione generazioni della famiglia che per motivi anagrafici non si sono potute incontrare è ancora una volta quella del reenactment: l’immagine di due bambini, la figlia e il nipote del regista, che indossando i costumi già usati dai loro antenati riproducono i passi del Jarabe tapatío, chiude il film con un simbolo forte di continuità tra generazioni e trasmissione della memoria, resa possibile in definitiva dalla passione per il cinema condivisa da un nonno e da un nipote.

Jarabe tapatío

Diverse generazioni della famiglia Buil alle prese con il Jarabe tapatío.

La línea paterna uscì nel 1995, anno del centenario del cinema, e partecipò alla 52ª Mostra del Cinema di Venezia, nella sezione “Finestra sulle immagini”. È stato poi in competizione a Cinéma du Réel, al festival di Mannheim-Heidelberg e ha vinto il premio speciale della giuria al festival di Trieste, il premio Silver Ariel per il miglior documentario lungometraggio in Messico, il Golden Precolumbian Circle per la migliore opera prima al festival di Bogotà e il premio UNESCO al festival di Gramado in Brasile. È stato anche proiettato al MoMA di New York e nei musei della Fondazione Guggenheim. In Italia non ha più circolato dopo il passaggio a Venezia e Trieste.

Mario Tolomelli

Scarica il testo in PDF

  1. Messico, 1995, 35 mm, b/n, 85’
  2. David M.J. Wood, Vestigios de historia: el archivo familiar en el cine documental y experimental contemporáneo, in: Anales del Instituto de Investigaciones Estéticas, Vol. XXXVI, número 104, año 2014, p.115
  3. Jorge Ayala Blanco, La fugacidad del cine mexicano, Océano, México, 2001, p. 274
  4. Tutte le immagini qui riprodotte (salvo diversa indicazione) sono tratte da fotogrammi del film La línea paterna. La foto della casa è tratta da José Buil, La línea paterna, El milagro / Instituto Mexicano de Cinematografía, México, 1997, p. 57. Il volumetto raccoglie la sceneggiatura del film, accompagnata da alcune foto e da due utili testi introduttivi.
  5. José Buil, cit. p. 57
  6. Così recita il secondo cartello che compare nel film (nostra traduzione). V. anche Buil, 1997, cit. P. 21
  7. Juan Rulfo, Pedro Páramo, Cátedra, Madrid, 1999. Capolavoro della letteratura messicana e mondiale, pubblicato originariamente nel 1955 e poco conosciuto in Italia, nonostante ne esistano tre traduzioni. Sull’argomento v. Barbara Destefanis, Sulla (s)fortuna di Juan Rulfo e Pedro Páramo in Italia, in: Artifara – Rivista di lingue e letterature iberiche e latinoamericane, luglio-dicembre 2002
  8. Rulfo, 1999, cit. pp. 63-65 (nostra traduzione)
  9. Alejandro Medrano Platas, José Buil, Quince directores del cine mexicano, Plaza & Janés, México, 1999, p. 306, cit. in Jorge Ruffinelli, Del cine domestico al documental personal en América Latina. Cinco casos, in: La casa abierta. El cine doméstico y sus reciclajes contemporáneos, a cura di Efrén Cuevas Álvarez, Ocho y Medio, Madrid, 2010, p 238
  10. Platas, 1999, cit.
  11. Iván Trujillo, La Filmoteca de la Universidad Nacional Autonóma de México, in Karen L. Ishizuka and Patricia R. Zimmermann (eds.), Mining the Home Movie: Excavations in Histories and Memories, University of California Press, Berkeley, 2008, p. 58
  12. Una descrizione analitica del film, scena per scena, è presente in: Itzia Fernández Escareño, Compilación y patrimonio “extraviado”. Reciclaje de material de archivo en el documental mexicano contemporáneo. La Línea paterna (1995) y Los rollos perdidos de Pancho Villa (2003), in: Screening the Americas / Proyectando las Américas. Narration of Nation in Documentary Film / Narración de la nación en el cine documental, Wissenschaftlicher Verlag Trier, Trier, 2011, pp. 327-329
  13. Primo cartello che compare nel film (nostra traduzione). V. anche Buil, 1997, cit. P. 21
  14. Ruffinelli, 2010, cit. p. 241 (nostra traduzione)
  15. Alfonso Morales Carrillo, El hilo y la rueca, in José Buil, 1997, cit. p. 11
  16. Jorge Ruffinelli, Yo es/soy “el otro”: Variantes del documental subjectivo o personal, in Acta Sociológica núm. 53, septiembre-diciembre 2010, p. 68 (nostra traduzione)
  17. Buil, cit. p. 28.
  18. Paolo Simoni, La morte al lavoro. E in vacanza. Film di famiglia, tra riscoperta e oblio, in Cinegrafie, anno XV, n° 16, 2003
  19. Carrillo, 1997, cit. p.9 (nostra traduzione)
  20. Per i dettagli sul rito: Ruffinelli, 2010, cit. p 240, nota
  21. Álvaro Vázquez Mantecón, El Cine super ocho en Mexico 1970-1989, UNAM, Filmoteca, México, 2012, p. 29
  22. Nestor Almendros, El cine en México. Fragmentos, in Rene Palacios More, Daniel Pires Mateus (a cura di) El cine latinoamericano, o por una estetica de la ferocidad, la magia y la violencia, Sedmay, Madrid, 1976, pp. 163-164 (nostra traduzione)
  23. Salvador Velazco, La linea paterna, palimpsesto filmico, in: El ojo que piensa. Revista de cine iberoamericano, año 3, núm. 5, enero – junio 2012
  24. Trujillo, 2008, cit. p. 58
  25. Buil, 1997, cit. pp. 29-30
  26. Ibid. p. 39.
  27. Velazco, 2012, cit.

Intervista al regista cileno Ignacio Agüero

Category : Film, Interviste

El-otro-dia_Aguero

El otro dia di Ignacio Agüero è un film saggio di straordinaria intensità. Il dispositivo iniziale è molto semplice: per un anno il regista filma all’interno della propria casa a Santiago del Cile, soffermandosi sui giochi di luce prodotti dai raggi del sole che filtrano attraverso le finestre e sulla vita del giardino attraverso le stagioni. Quando qualcuno suona il campanello Agüero gli chiede di andare a visitare la sua casa, facendo così uscire periodicamente l’occhio della telecamera e insieme quello dello spettatore dallo huis-clos casalingo.
La casa si presenta come un organismo che viene disvelato lentamente, prima attraverso piani ravvicinati, poi via via che il film procede compaiono dei piani intermedi e infine dei totali. Questo disvelamento lento, così come il carattere imprevedibile degli incontri, contribuiscono alla vivacità del film, fornendogli un efficace “drive”.
El otro dia è un film poetico, che lascia spaziare lo sguardo dello spettatore. In un film come questo, dal respiro calmo e meditativo, ogni variazione inattesa rispetto al linguaggio utilizzato fino a quel momento (la comparsa di un dolly, l’uso della camera a spalla in casa) ha un effetto straordinariamente potente (come nel film di Chantal Akerman Hotel Monterey, dove la comparsa di un carrello dopo un’ora di piani fissi ha l’effetto di una detonazione).
Pur senza avere un “tema”, o un “argomento”, il film diviene in modo quasi spontaneo, con straordinaria naturalezza, il luogo di incontro tra storie familiari del regista, le storie delle persone che suonano alla porta e la storia del paese, il Cile. Questo effetto di naturalezza è in realtà il risultato di una sapiente costruzione in cui la linea armonica dell’interno si intreccia con le linee melodiche delle storie esterne.

___________________________________

 Intervista realizzata il 28 marzo 2013 a Parigi al festival Cinéma du Réel

Il suo film è strutturato come una novella orientale: c’è una cornice, costituita dalle immagini girate all’interno della casa, che contiene altre storie. Ogni volta che qualcuno suona alla porta c’è una nuova storia che inizia, per poi concludersi e lasciare spazio ad altre storie… È per sperimentare la grande libertà lasciata da questo dispositivo, che prende direzioni inattese sul filo degli incontri, che ha fatto questo film?

In realtà faccio documentari per la libertà creativa che questo genere permette. Mi pare che il documentario sia uno spazio dove si può esercitare quotidianamente la libertà di creazione. Questa libertà l’ho sperimentata in quasi tutti i documentari che ho fatto. In questo film ho tentato un esperimento, l’idea era di fare un film sull’esperienza umana di stare in un luogo, il che significa che non succederà niente, o almeno niente di molto spettacolare. Non è necessario che succeda qualcosa di spettacolare. Anzi, è proprio necessario che non succeda niente di spettacolare per poter perseguire l’esperienza dello stare in un luogo. Ho certamente lavorato con la massima libertà. La prima libertà consiste nel non aspettarsi un risultato, cioè nel filmare senza garanzia che ne risulti poi un film. Questa è la libertà più grande che ci sia, e fa sì che nel film possano entrare cose che non potrebbero starci se ci fosse un proposito ben definito.

Quel che si vede nel film è puramente frutto della scoperta quotidiana e degli incontri? O c’erano altre idee all’inizio a parte il fatto di filmare all’interno della casa e di filmare chi suonasse il campanello?

Ovviamente si tratta di un luogo che conoscevo molto bene, essendo casa mia… quindi avevo osservato molto, una osservazione costante, e in particolare mi affascinava la luce del sole, che entrando dalla finestra e muovendosi produce un numero infinito di immagini diverse con il passare del tempo, perché la luce cambia lo spazio. Si producono immagini diverse, durante il giorno e con il passare delle stagioni, in uno stesso spazio. Questo mi affascinava, e questo era un film che avevo in mente, a cui volevo dare una forma, avevo molta voglia di filmare la luce: la luce illumina gli oggetti, e gli oggetti cominciano a raccontare, a parlare, perché sono illuminati. Erano immagini senza scopo preciso, prodotte in una sorta di estasi ludica, che ha portato alla generazione di idee, di spunti. C’è una osservazione precedente all’inizio delle riprese, però al momento di girare si cancella tutto perché è come se si vedesse tutto per la prima volta.

Ignacio Agüero

Ignacio Agüero

Ci sono in realtà due luoghi nel film, l’interno, che è il luogo più statico, e l’esterno, il giardino, dove c’è movimento, ci sono gli uccelli che si bagnano nell’acqua, il gatto che passa… Questo modo di filmare il giardino attraverso le stagioni mi ha fatto pensare a El sol del membrillo di Victor Erice: il fatto di volgere lo sguardo anche verso il giardino è venuto in un secondo tempo, o faceva parte dell’idea iniziale?

No, anche il giardino aveva sempre attirato la mia attenzione, in particolare mi avevano sempre affascinato gli uccelli che facevano il bagno: il tempo e le infinite cautele che impiegavano prima di scendere a fare il bagno nell’acqua. Poi però filmando tutto cambia, perché li vedo attraverso l’obiettivo, li vedo molto da vicino ed è come se li vedessi per la prima volta. Vedo anche uccelli che non sapevo venissero nel mio giardino, perché pensavo fossero tutti zorzales [merli sudamericani], invece ho scoperto che c’è il picaflor [colibrì], poi un altro uccello raro con gli occhi rossi, e anche il picchio, che ho filmato molto ma che è stato eliminato in montaggio. Quindi filmando la capacità di osservazione si acuisce.

Ci sono dei brani di musica in alcune sequenze: Beethoven, Bach, suonati da Glenn Gould… da cosa è nato l’inserimento della musica in un film come questo, così essenziale?

La prima musica che si sente era nel suono diretto della ripresa: c’era lo stereo acceso in casa. Poi in seguito questa cosa l’ho riprodotta, quando apro la porta e delle persone entrano o anche come suono ambientale in certe riprese… è un gioco, naturalmente, ma un gioco nato durante le riprese.

Mi sono chiesto se ci fossero molti altri personaggi (visitatori alla porta), che non sono poi entrati nel montaggio finale…

Sì, ce n’erano molti di più…

Nel film compare ogni tanto una mappa della città dove viene indicata con delle puntine la posizione delle case visitate (le case di chi ha suonato alla porta), e sono molte di più di quelle che si vedono nel film…

Sì, ce n’erano molti di più anche di quelli che si vedono sulla cartina, perché tanta gente mi ha suonato al campanello, però alla fine del montaggio ne sono rimasti sei.

Ignacio Agüero con Federico Rossin, curatore della rassegna “Cile 1973-2013″ a Cinéma du Réel

Ignacio Agüero con Federico Rossin, curatore della rassegna “Cile 1973-2013″ a Cinéma du Réel

Tra le persone che suonano alla porta c’è anche una ragazza neolaureata che ha trovato l’indirizzo di casa sua su internet, in quanto sede della sua casa di produzione, e si presenta per lasciare il proprio curriculum. È l’unica a essere filmata con la camera a spalla, come mai?

È molto semplice: mi ha colto di sorpresa mentre stavo uscendo di casa e non ho avuto tempo di mettere la telecamera sul treppiede…

La ragazza è di Valparaíso, la visita a casa sua è un bel momento del film…
E l’idea del dolly come è nata?

In realtà il dolly c’è in tutti i miei film. È un dolly minimo, però necessario. Perché mi piace quel muro di mattoni, il muro della casa accanto alla mia, mi piace il colore, la superficie, e scoprire la città in questo modo, oltre il muro, sopra il tetto, e la cordigliera delle Ande, fino ad allora rimasta invisibile: è necessario, dà un’altra dimensione…

In effetti l’ho trovato un momento molto forte, perché arriva del tutto inatteso…
Mi ha detto prima che considera il documentario in generale come uno spazio di libertà creativa, però rispetto a tutti i suoi film precedenti, che avevano un soggetto prestabilito, ha percepito una maggiore libertà nel fare questo film?

Sì, questo film rappresenta per me un passo avanti rispetto ai precedenti, si tratta di elementi che erano già presenti negli altri film, però qui si produce una maturazione, la maggior libertà che caratterizza questo film rispetto a quelli precedenti consiste nel fatto che qui non c’è niente da raccontare, c’è solo da guardare, guardare: cinema puro. Anche negli altri film si guardava, però in qualche modo c’era una tensione tra guardare e raccontare; qui invece il racconto scorre molto naturalmente, perché non c’è la necessità di farlo…

Alla fine delle storie sono raccontate, però è vero, in modo molto naturale…

Per me sono delle scoperte, però la cosa interessante è che tutte le scoperte provengono da una scommessa iniziale, che è stare in un luogo, riprodurre l’esperienza di stare in un luogo.

Un’altra cosa che ho trovato interessante è il riferimento alle “vite precedenti” dei mobili, è come se il mobile da oggetto inanimato si trasformasse in qualcosa di vivo, è una cosa che mi affascina moltissimo…

… Anche a me… Perché sono oggetti che si trovano sempre nei film, ma nessuno ci bada, e in questo film mi piace molto come diventano protagonisti, a causa della luce che li percorre, ma anche la loro forma, la sensualità del legno e delle forme attira l’attenzione perché in un film che è sullo stare in un luogo quello che apparentemente è banale appare come principale.

M.T.

_____________________________________

Ignacio Agüero, nato nel 1952, è uno dei più importanti documentaristi cileni.  Sul sito Cinechile, enciclopedia del cinema cileno, è presente una sua dettagliata biografia, le schede di tutti i film, diversi articoli e interviste (in spagnolo):
http://www.cinechile.cl/persona-102

Pagina Facebook del film El Otro dia

Intervista a Ignacio Agüero sul film El otro dia, con sequenze dal film (dal sito chiledoc.cl):

Intervista alla montatrice del film, Sophie Franca (dal sito chiledoc.cl):